Francesca Farina e Francesca Dadde Mannu Stampa E-mail

Brani scelti

dadde La stanza, gelida nelle eterne notti d'inverno, quando sembrava che anche le lenzuola ghiacciassero, fresca per contro nelle sere d'estate, restava deserta nelle lunghe stagioni della transumanza, quando il Padre scendeva dalla Bianca Montagna al verde mare, alla costa dorata e scintillante, al misero borgo negletto infossato ai piedi della Linguara, la montagna al Nord dell'Isola dalle cime frantumate ed incise, presto raggiunto dalla sposa e dai figli piccoli. Rimanevano al paese tra le colline le figlie femmine, razza disprezzata, come dimenticate in mano agli artigli insensati delle Zie. Soltanto per qualche mese all'anno la camera si animava, tuttavia pacatamente: da quella lontana costa tra il mare e la frastagliata Montagna tornava al Villaggio sulle alture la Madre, il cui viso assomigliava straordinariamente alla Madonna dell'Annunciata di Lorenzo Lotto: stessi colori dell'incarnato, bruni e spenti, stessi occhi timidi ed opachi, quasi che un velo di timore li offuscasse, stesso viso sottile e triangolare, le piccole orecchie nascoste da due bande irregolari di nere chiome che si conservarono tali fino alla più tarda età; sotto le ampie, cupe vesti si indovinavano, come in quella, i seni di un candore abbagliante, poiché mai le sue carni furono toccate dalla luce diurna; le spalle, rotonde e forti nei suoi più maturi anni; le gambe dritte e un poco grosse all'attaccatura delle caviglie; il corpo grande, nel complesso di una perfezione rara, comprese le piccole, languide mani e i saldi piedi, esprimeva una ritrosia inusitata anche nelle donne più restìe, un desiderio di annullamento, quasi una pervicace volontà di dissoluzione; la bocca minuscola sembrava serrare nella chiusa dei denti ogni segreto, le labbra quasi suggellate da innominabili misteri. Per lei, l'angelo della Visitazione non annunciò se non lutti e sciagure; l'aria mossa da quelle aperte ali non fu che vento di tempesta; il profumo di quei gigli non altro che odore di sangue e morte; paurosa di tutto come un passero, schiva e ombrosa come una giumenta giovane e nervosa - ne ricalcava in realtà la possanza dei lombi arcuati e solidi, il carattere suscettibile e fatuo - quasi sempre "tacita e muta" come una matrona nella iconografia romana, raramente abbandonata all'ira che tuttavia deflagrava a volte, quasi tuono nella bufera delle parole, quando la Casa e i suoi Penati erano scossi dall'odio, dalla miseria, ed immani gesti si levavano a sommuovere le acque apparentemente quiete dei caratteri; allora, anch'essa travolta, quasi obliando la naturale temperanza che la segnava come un fregio, diveniva Medusa e Gorgòne, pietosa e risibile, più che spaventosa, in vista… Tornava dunque la Madre, l'alta, sottile figura, quasi emaciata, soavissima nelle movenze, alla Casa, all'anello ferreo della cucina dove sedeva, affranta e sconfortata, nell'estremo angolo della stanza, subito attorniata dalle Cognate come per un assedio: ella cercava intorno il frutto modesto dei suoi parti, quelle figlie trascurate che crescevano selvagge, simili a piccoli topi, così magre da rasentare il rachitismo, il musino aguzzo, spaventati occhi dalle pupille dilatate da un terrore insensato e nascosto, inconosciuto e folle, pronte a fuggire la luce, quasi nate alle tenebre e al gelo. Le due bambine si avvicinavano quindi, caute e diffidenti come cuccioli, ed ella prendeva loro le mani e le mirava con sguardi accorati e lunghi, senza quasi poter parlare, e quando infine proferiva un motto dolente, la voce usciva in un soffio, così flebile da non poter essere afferrata. Osservava la magrezza eccessiva della loro persona, senza osare di rimproverare le aspre Cognate che la frastornavano intanto di chiacchiere e duri rimbrotti, mentre ella, spossata dal lungo, disagiato viaggio, aspettava invano un caffè, un biscotto; compativa l'aspetto selvatico e schivo delle piccole, che la accoglievano come un'estranea, una nemica, la quale avesse disatteso infinite speranze, i giochi, i pomeriggi e le sere di intimità e di baci mai dati; si accorava nell'intuire dalle fattezze smunte delle piccine i pasti stenti, i segreti dolori, tanto più grandi di loro, laceranti benché invisibili, e si struggeva senza parlare per la sorte crudele che aveva avuto per destino insieme ad esse. Irate, le Zie si levavano, come travolte da un vento infuocato, e si appartavano strette fra loro in un complotto incessante: avvertivano che la Madre le accusava con gli occhi dell'ignavia con cui allevavano le sue figlie e se ne risentivano, come di uno schiaffo dato in pieno viso, passando immediatamente dalla parte delle vittime e ritorcendo ogni sospetto sulla Madre. Per lunghi giorni non le rivolgevano la parola, se non per ordinarle come ad una serva che si occupasse delle varie incombenze che gravavano sulla Casa.

Francesca Farina
"L'isola dei morti"
autobiografia romanzata (così la definisce l'autrice)



farina4 Da padrona di casa mia di tutto, ho cominciato a fare la serva, senza avere mai il possesso di 5 lire!, tutto in mano alla belva (Mariedda), era lei la padrona di tutto: faceva la spesa, cucinava lei come le piaceva, con i suoi gusti; se a ma non piaceva, non importava niente; non ero buona neanche a grattugiare il formaggio, le più volte me lo levava dalle mani, perché lo facevo grosso e io, disgraziata, al posto di spaccarle la testa, glielo davo! Sono solo frammenti quello che dico, ci vorrebbe la penna di Victor Hugo, e non la mia inesperta e poca cultura! A dire ciò che ho sofferto è una cosa… Di 15 giorni che ho sposato sono entrate in gelosia, subito pensando di perdere il regno. Una sera vostro padre, ai 15 giorni dalle nozze, venne dalla piazza e mi diede 2 o 3 caramelle, a loro no; se non ne aveva altre, che doveva fare? Che doveva magari darle e loro ma non a me. Ricordo che hanno fatto una scenata, di quelle con tanto sfarzo, non dico nulla! La sera, come buon principio, sono andata a letto piangendo, così ho cominciato il mio lungo calvario, per ben 20 anni! Dai primi giorni Mariedda cominciò a rivelarsi ciò che realmente era e disse: "Su mànnicu lu àcco jèo e Nennìna", ite dispiaghère! ("Il mangiare lo faccio io e Nennina". Che dispiacere!). Tanto per approvarla… Lei s'è fatta subito padrona di tutto e di tutti, senza nessun riguardo per me, come se non c'ero; lei faceva la spesa; il pasto, anche se era in ritardo non gliene importava affatto; quando ritornava dalla spesa restava giù e chiamava: "Nennì, vieni!". Era per darle solo a lei la prima frutta e la migliore, solo a lei e basta; se non c'ero io la pentola la mettevano dopo l'una; io avevo fame e dicevo: "Ma oggi non mangi?" "Ih, sa izza de Daddòne, pro mannicàre!" "Ih, la figlia di Daddone, per mangiare!…". Io, anche incinta e allattando, e come che ti prende la fame!, oh, quanta ne ho sofferto! Disgraziata, il più delle volte il pranzo consisteva fagioli e patate, "cassòla de currizòlu" ("casseruola di fagiolini") e basta, e pane, tanto a me non mi bastava, che nutrimento! Se poi mi lamentavo, che sguardi di cuore! La Peppa era terribile, io avevo paura di aprire la bocca, il mio nome non me lo ha mai detto, solo "sa ìzza de Daddòne" ("la figlia di Daddone") e basta. Non mi è mai entrata in camera quando i bambini nascevano; neanche quando salivo su li guardava in faccia; ne provavo un dispiacere enorme, non mi poteva vedere, essendo lei di alta classe e io ero "de su muntonàgliu" ("del mondezzaio"), secondo lei, ignorante come una bestia, ma di una cattiveria infinita, però sempre istigata dalla famosa padrona! Quante volte si chiudevano nella stanza, sole tra di loro a programmare e a giudicare, povera me! Poi si faceva quasi sempre "sos maccarònes de errìttu, a cariàre" (la pasta fatta in casa, a impastare") anche un'ora, tutte 4; se mancavo appena erano guai, non potevo neanche stare con i figli, neanche allattarli a lungo: "E ìnila, e mòveti!" ("E finiscila, e muoviti!"). Li prendevano fuori e io a sgobbare dentro e a lavare la roba dei bambini. Non mi hanno mai aiutato a lavare nulla, solo io; poi ritornavi da lavare e c'erano da lavare le scale, con spazzola e sapone, "a macchìne" ("come matti"), sempre con comando della padrona assoluta io, e lei, ossia Nennìna, tanto per farsi vedere che c'era anche lei, lavava la pietra della porta e basta! Quanta acqua consumavano, quanti secchi dal Càntaro (dalla fontana pubblica), non dico quella che portavo e alle volte si faceva il giro fuori per non sporcare le scale, sempre col suo ordine. Non era possibile che nessuno potesse reagire, c'era il generale e basta, bisognava stare sull'attenti tutti, e io soggiogata subito! Quando si finiva il mangiare, sparivano subito dentro a colloquio; a volte le sentivo tra di loro: "Ih, ca es minùtu su pràtu chi s'at pòstu, ca non bàstat!" ("Ih, non era certo piccola la porzione che ha preso!"). A lavare i piatti la Peppa o io, loro mai. La mattina a Nennìna sempre "s'ovu abbattatu" ("l'uovo sbattuto"), le chiare se le cuoceva la Peppa, io però non ne ho mai voluto, meno male, mi faceva una rabbia, e io, allattando, non avevo bisogno, tanto ero sana e affamata! Poi la famosa suocera aveva due facce: se era con me mi dava tutte le ragioni, appena entravano loro, io, sola, e si dava alla loro parte; non mi restava, come si dice, un filo d'erba in mano, essendo sotto il dominio della strega, compreso io che dovevo essere soggetta a subire, come lo stesso suo fratello che la temeva lo stesso, però certe volte litigava, meno male che era dalla mia parte! Ricordo quando litigavamo, io non sapevo neanche il perché, da nulla mi attaccavano tutte e tre, poi, quando era che Giorgio faceva rientro a a casa, per prima zia Nennìna: "Zitte, che non lo sappia Giorgio!". Ormai loro mi avevano ben sistemato, ero a posto e io, disgraziata, al posto di lamentarmi di quello che mi facevano, non gli dicevo mai nulla. Però lui se ne accorgeva che non ero mai contenta, come fare? Non era possibile con la famiglia che veniva, l'uno appresso all'altro, e la più vecchia - "Ih, ca ne ses fachènne mànc'unu, ispèzia de distùrbu!" ("Ma quanti figli stai facendo, guarda che seccatura!") - non mi poteva vedere, ogni e sempre, ma ogni discorso mi feriva, una vera strega, però era sempre istigata dal maggiordomo, s'intende, che ficcava il naso dappertutto. Che supplizio, il mio, a pensare ciò che mi hanno fatto subire mi si rizzano i capelli, ma se sarebbe di tornare indietro sugli anni, che non è possibile, non ci sarei stata neanche un giorno, che destino crudele! Io non ero buona neanche a grattugiare il formaggio perché lo facevo grosso e me lo levava di mano, la famosa, e io zitta, al posto di spaccarle la testa! Lì si faceva anche l'orto, "ì su e Pettenèdda, in Lampiòne" (nella proprietà di una certa Pettenèdda, chiamata Lampiòne): quanto i ho lavorato, anche lì non dico quanto! Veniva l'estate. Marièdda, con la scusa che aveva una specie di eczema, una malattia della pelle, come crosta, uno schifo, eppure si asciugava nello stesso asciugamano di tutti, io non lo sopportavo e le dissi un giorno: "Ma perché non ti metti un tovagliolo a parte?" Non l'avessi mai detto, che lingua, sebbene avevo ragione! Poi se ne andava al mare per tanti anni, con Petry e Salvatore, di 3 e 4 anni; ci andava qualche settimana anche vostro padre, sempre con suo ordine, s'intende. Una volta c'era lui e doveva venire al paese e le disse, a Marièdda: "La roba c'è ancora, qualche settimana verrebbe anche Francesca qui". Non rispose. Con la paura che io andassi là, sapete che à fatto? Caricò tutto, il giorno dopo è ritornata, tanto essa c'era un mese e stava bene, che cattiveria, per non godere io, tanto non ero sacrificata abbastanza da tutte le parti, c'era anche la suocera, un vero manicomio, tutte da una parte, io sola! Non ti potevi difendere, 3 belve, il peggio (era) che io sopportavo, disgraziata! Appena sposata, la mattina che mi sono alzata, ricordo che mi hanno fatto l'uovo sbattuto in una tazza di plastica che vostro padre lì si faceva la barba! Sapete che sono rimasta male. Cominciai a mangiare: pensate che era insieme col pelo della barba del giorno prima! Però l'ho lasciato, non era possibile! Allora la padrona lo diede a zia Nennìna che, senza parlare, se lo mangiò tutto perché per accontentarla, la strega! Non vi dico quando hanno visto il mio corredo!, non era tanto ma, come si usava allora, ho portato un po' di tutto, 12 di lenzuoli, 12 di tutto, sottovesti e quello che occorreva. L'hanno bene esaminato! La vecchia per prima: "Questi lenzuoli sono pannuzzèddoso de cuchìna!" ("tovaglioli da cucina"); li voleva più grandi. E Marièdda: "E se mi serve una camicia me la prendo, ordine mannu t'ap' a petiìre!" ("Non ti chiederò certo il permesso!"). Io sono rimasta "sicca" ("di sasso"), mi son detta: "Questa è veramente sa de Zanetti!" ("come la Zanetti!"). Che faccia tosta, s'è subito fatta padrona anche della mia roba! E qualche pensiero cominciava a frullarmi in testa, le sentivo sempre bisbigliando tra di loro, non si contraddivano mai, si ritiravano in camera a fare i commenti tra di loro, non hanno mai litigato, sempre sull'attenti con la comandante, quello che diceva era sacro, come se ci avesse fatto il lavaggio del cervello! Sono stata tre mesi e non ero ancora incinta, "sa vèzza: Da chi is gòi, a ìte bi cojuaìsa, vràte mèu b'at pèrditu chin tècusu, no at àppitu vortùna!" ("la vecchia: Dal momento che eri così, perché ti sei sposata? Mio fratello non ci ha guadagnato a sposare te, non ha avuto fortuna!"). E loro mi facevano l'occhio a lasciarla perdere, però era per non offenderla, e io intanto subivo e basta. Poi venni incinta, non vi dico le lagrime che ho versato! C'era la suocera che se era sola con me mi dava tutte le ragioni; appena entrava la badessa con loro, si faceva subito alla loro parte, e io rimanevo sola e colpevole di tutto, senza sapere il perché; il loro motto era solo attaccarsi alle minime cose da nulla, entrate subito in gelosia con la mia famiglia, c'era Grazia e babbo; io ci andavo, ho subito sentito il distacco dalla mia casa, e loro hanno cominciato a dialogare e a ingelosirsi perché dovevo rimanere lì, che c'era tanto da fare, e alla fine passavano le ore alla finestra criticando quelle che passavano nella strada. Avevano invidia di me che, al paragone loro, a quel tempo, non ero bella ma neanche brutta: "Ih, sa ìzza de Daddòne, cànno mànnicat bène si li ìdet sùbitu, qùssa cara es che'i sa nostra!" ("Eh, la figlia di Daddone, quando mangia bene le si vede subito, la sua faccia non è come la nostra!"). E l'altra: "A sa cara ne li pròicata, non che a nòisi!" ("Alla faccia le si vede subito, non come a noi!"). La vecchia ti fulminava col solo sguardo! Loro comandavano in tutte le cose, per i nomi dei bambini, per la scelta dei padrini, per tutto, io non ero buona neanche a comprare un vestitino, invece io li prendevo di un colore chiaro e bellino, come doveva essere adatto; andava la strega e li comprava oscuri e stonati, ma per lei erano meglio dei miei, s'intende! Come ero stupida a non alzare la voce, c'era da buttarle tutte e 3 dalla finestra senza peccato, invece per loro fortuna hanno trovato la fessa che sopportava tutto. Oggi certo non sarei rimasta neanche due giorni con loro, a costo di andare in mezzo alla strada! Tuo padre non sapeva nulla di ciò che io subivo, peggio per me, avevo la stupida paura che dopo litigavano tra di loro e era peggio, poi lui alzava la voce e sarebbe stato uno scandalo e perciò, malgrado tutto, subivo io, disgraziata. Sono cose da non credere quello che io ho sofferto con quelle disgraziate, non ne dico neanche un terzo per non farvi male, sono tutte cose vere, io le bugie le odio, in questo caso sarebbe una calunnia; io ci ho la mia coscienza e se dicessi delle cose ingiuste debbo dare conto davanti al tribunale Divino. Vi dico, non anima viva avrebbe sofferto quanto ho sofferto io; lì ho fatto la scema, sebbene capivo tutto ma non reagivo, ho lasciato sempre il lasciapassare per vostro bene, e intanto io subivo.

Francesca Dadde Mannu
"Le mie memorie"
autobiografia 1915-1983



farina1 Bitti 9 giugno 1965, mercoledì

Caro diario
Questo è l'ultimo giorno di scuola. L'ho trascorso in modo più vivace e sereno di prima. Non ero contenta dentro di me. Avrei voluto che la scuola non terminasse mai. Chissà poi perché: eppure è proprio così. Ho cercato di imitare le mie compagne che erano tanto felici di essere giunte finalmente le vacanze: per me purtroppo non è stato così. Ripeto: non so proprio perché. Forse perché lascio i miei professori, le mie compagne e l'istituto dove forse non tornerò più, mai più. Se sarò promossa andrò in terza e quindi in un nuovo istituto che ultimamente si sta terminando. Sono incerta in matematica ma speriamo che tutto vada bene. Il professore poi è un pittocco, e dice che con 5 ½ non promuove. Ma sarà vero? Non so spero naturalmente di no. Ma cambio argomento. Fa un orribile freddo e soffia un vento del diavolo. A casa, proprio stasera che c'è babbo, è scomparsa Petry, mia sorella maggiore, strano, strano davvero prima di tutto perché non era mai successo, in secondo luogo perché proprio stasera e proprio a lei, alla maggiore, perché a casa è la più nominata: Petry qua, Petry là. Per fortuna è qui, adesso, a casa. Proprio ora mi dice "Ho un matto bisogno di andare giù (giù c'è il camerino). Poco fa sono passati un mucchio di ragazzi tra i quali Rinaldo Zanetti, vicino di casa, Bobbi Polo (vero nome Giampero Monea), e molti altri. Quest'ultimo a detto a Petry che il vento era maleducato. Petry ha sorriso per il semplice motivo che ha i pantaloni corti. Proprio ora ritorna. Dà un'occhiata distratta alla stanza, allo specchio e quindi esce di nuovo. Poco fa mi ha chiesto perché non le facevo leggere il diario. Tanto per non dire niente, le ho detto che non era un diario. Nella camera di mamma dove sono, c'è una luce così fiocca che sembra quella di una candela. Scrivo sempre, o quasi, vicino alla finestra e la tenda di nylon mi separa, quasi, dalla stanza. Proprio ora do un'occhiatta con una certa espressione di paura, morsicandomi le ditta, alla stanza: niente di anormale. Quindi mi rimetto a scrivere. Sento sbattere la finestra, cessa, risbatte e così via. Mio fratello Giovanni grida nella scala "Sa luche!" (La luce cioè di accenderla) e poi sale perché non accende. Grida ancora contro mia sorella Lucia e borbotta. Or ora sbatte ancora la finestra e la porta, come in un bizzarro concerto. Guardo fuori e vedo le foglie del campetto agitarsi con un fruscio di tante farfalle impazzite. Tante finestre sono illuminate: si distinguono le sagome delle persone. Di solito verso quest'ora si cena (saranno le otto) e quindi c'è daffare in ogni casa. Mia sorella Petry grida "Allughite" (Accendete). Sale le scale ed è subito su. Il vento ulula attraverso le imposte. La natura si scompiglia tutta. Mi rosicchio le unghie (ho questa pessima abbitudine ed ogni volta che mia madre mi vede, giù uno scappellotto!). Non so più che scrivere e ti saluto caro diario. Tra poco sarò su (mi sembra che ci sia aria di burrasca). Mi chiamano.


Bitti 10 giugno 1965, giovedì mattina

Caro diario
Ieri notte ho dormito nella camera dove si ricevono di solito gli ospiti, con mia sorella Petry. Dopo spenta la luce le ho raccontato "La gallina magica" un film che ho visto ieri sera alla Tv. Era magnifico e lungo, tanto che Petry ha finito coll'addormentarsi. Mi sono addormentata anch'io e non molto dopo di lei. L'indomani, cioè oggi, sono stata svegliata dal rumore dei passi su in cucina. Alle 8 mi sono alzata e poi ho fatto un mucchio di cose. Ho mangiato prima del ritorno del babbo dalla sua uscita a una visitina ai bar di Bitti, perché di solito fa così, e poi è giunto il pomeriggio e son di nuovo qua a scrivere nella "mia" stanza. C'è tant'aria ora che ho fatto da parte la tenda; l'ha detto anche Petry. Poco fa sono andata ad imbucare una lettera. Spira un'aria un po' fredda ma non certo come quella di ieri. Adesso però ne sarai stufo di sentire cosa accade, pressapoco, a casa. Cambio argomento. Quasi, quasi non mi sto accorgendo che scrivo un diario e lo dedico a te stesso. Leggendo il Diario di Anna Frank, so che ha dedicato le bellissime pagine della sua vita a un'amica immaginaria. Anch'io, vorrei fare così. Aver una vera amica è ben difficile, e poi io non l'ho veramente e se l'ho non la tratto come una vera amica ma come una compagna tanto cara, non però che ci si può fidare, ne mi posso confidare con lei. Le voglio solo un bene di compagna e nient'altro, perciò anch'io avrò una mia amica immaginaria. Si chiama Giorgia ma preferisco abbreviare con "Giò". Dunque, carissima Giò siamo per sempre amiche. Forse però non sei tanto immaginaria. Il mio diario è dedicato a una Giorgia tutta particolare e abita a… Per ora non lo dico: forse lo scriverò un altro giorno. Tanto per cambiare ancora una volta, ti dico che domani è cioè l'undici mettono i nostri quadri cioè la promozione o la bocciatura di ogni alunna, con affianco i voti. Ho fatto un brutto sogno: mia sorella dice "Triste presagio: forse, mhm, chissà che non ti lascino Matematica". Io ci ho 5, 3, 7, 7 in orale, 7, 5, 5 in iscritto: facendo la media, che ne pensi Giò? Mi viene 39 (in tutto) diviso 7 e quindi 5 con l'avanzo di 4 punti. Pensi che mi promuovono? Talvolta, al solo pensiero della bocciatura, mi vien la voglia di piangere e me la prendo con i professori. Forse sono cattiva, ma forse ho un po' di ragione.


Bitti 11 giugno 1965, venerdì mattina

Cara Giò
Ho finito ora di leggere "Il diario di Anna Frank". Lo trovo molto bello e istruttivo ma anche educativo. Mi ha insegnato a sapermi veramente comportare e in tutti i casi. Ti meraviglierai al sentirmi dire che non sapevo ancora comportarmi bene ma non intendo dirti questo: è che ho capito veramente come affrontare una burrasca di famiglia, un dolore ed anche una gioia. Prima volevo gridare, quando ero ingenua, me la prendevo con tutti, quando gioivo volevo farlo sapere a tutti ed invece ora sono molto cambiata. Nel dolore sopporto pazientemente le mie pene, nella gioia mi voglio anzi nascondere perché nessuno sappia dei miei sentimenti. Ho imparato anche ad essere un po' meno irosa e focosa, perché lo ero molto. Ho imparato a studiare molto di più. A proposito, sai che cosa ho deciso di fare durante le vacanze? Studierò quello che nell'anno scolastico facevo ogni giorno: per esempio, il lunedì avevo, e avrò, Disegno, matematica, lettere (2 ore). Farò dunque lezione di Disegno, ecc. secondo il programma che ho fatto durante l'anno. Mi piace imparare l'inglese, la stenografia ma purtroppo non ho i mezzi di comprarmi i libri da me di inglese, né posso andare ad un corso di stenografia. Ecco: vorrei fare di tutto e giungo al punto di non fare niente! Ma questa volta mi vedrai, Giò! Inizierò da lunedì 14 maggio e non mi darò un attimo di tregua! Dovrò fare tutto nel pomeriggio poiché al mattino non ho troppo tempo a disposizione. Tanto per cambiare: oggi è una magnifica giornata. Gli uccelli cantano sopra il tetto della mia vecchia casa (in via Cavallotti; proprio vicino alla piazza dopo il corso Veneto) e formano un concerto con note tanto armoniose e bellissime che io gradisco assai. Sai stasera verso le 3 e mezza andrò a scuola: mettono i quadri di IIA cioè i nostri. Credo che mi mangerò le dita al punto di non poterti più scrivere. Anche l'anno passato ho fatto così ero troppo ansiosa, troppo nervosa e non sapevo darmi pace. La mia ansietà era mista alla amarezza di essere rimandata in Metematica. Prima di riunirsi il consiglio dei professori per decidere sulle nostre medie, il professor Piluzzi (di matem.) e Professor Burroi di Lettere mi chiamarono. Pensai: "Adesso che vogliono?". Andai. Appena fui sul marciapiede mi parlarono dicendomi: Prof. P. "Farina, voglio che mi tolga una curiosità alquanto grave, nei tuoi riguardi. La matematica ti piace si o no? Oppure non l'hai mai studiata?" Ero tanto confusa ma ricordo benissimo che dissi: "No, non m'è mai piaciuta e poi… non l'ho mai studiata appunto perché la odiavo". Prof. Burroi ribbatté "L'italiano ti piace, vero? E lo hai studiato in modo ammirevole. Devo però dire che sarò il primo che mi batterò perché tu sia rimandata in matematica." Ero convinta che non era vero però avrebbe avuto ragione, se lo avesse fatto. Prof. P.: "Promettimi di studiare la matem. durante l'estate e... poi si vedrà!". Non ricordo bene, tanto mi fece sbalordire questa proposta, ma risposi pressappoco così: "Bè, non so… ecco io credo… E poi perché vi preoccupate tanto…?" Prof. P. e B. "Perché tra poco facciamo le medie". Mi dissero di andare e le mie compagne mi si affollarono intorno chiedendomi cosa mi avevano detto, e questo e quello. Non risposi a nessuno, mi appoggiai stanca al muro e non dissi niente per tutto il resto della serata. Attesi ore di ansia e di dolore. Quando misero i nostri quadri per poco non cascai a terra: ero promossa! Oh, Oh Giò! Se fossi stata al mio posto! Ma sai che cosa ho fatto quella stessa sera? Sotto consiglio di mia sorella andai al bar di zio "Ginamona" dove il professor Piluzzi era solito andare. Mi avvicinai a lui e con la voce tremante gli dissi: "Professore, può venire al marciapiede? Vorrei parlarle". Non so come feci ad avere tanto coraggio ma egli venne dopo essersi abbassato fino a me per sentire. Appena fummo sul marciapiede gli dissi: "Professore, vorrei stringerle la mano". Sembrò sbalordito ma calmo mi disse: "E perché?" volevo rispondere per tutto quello che mi aveva fatto, per il bene che quel giorno mi fece. Ma non ebbi il coraggio e dissi incerta: "Perché… Perché…". Egli mi porse la mano con il suo sorriso di un padre, di quel padre che da anni cercavo, e che allora solo allora avevo trovato. Gliela strinsi con una commozione che ebbi appena il coraggio di mormorare: "Grazie" con un fil di voce e con il pianto in essa. Rispose: "Dimentica". E mi stupì ancora di più. Oh, come mi sentivo felice allora! Già, tu non lo hai provato ma se lo provassi sentiresti quant'è dolce essere promosse con un dolore subito preceduto da una gioia immensa! Non dimenticherò il mio professore di matematica, non dimenticherò mai il suo sorriso benevolo e affettuoso, così caldo e paterno, così dolce come una carezza!


Bitti 12 giugno 1965, sabato mattina

Cara Giò
Oggi la giornata è iniziata male. 1°: mia sorella beveva il latte, siccome questa mattina ce n'era poco, né Lucia né Giovanni ne dovevano bere. Io non ne bevevo da una settimana; forse ancor di più. Ho chiesto di berlo e subito una baruffa indescrivibile tra me e mia sorella: ogni tanto volavano dei cazzotti e si spedivano pizzichi alle parti più tenere del corpo. Alla fine prendo una chicchera e inizio a prepararmi il pane. E mia sorella: "Ma guarda un po' che sfacciata". Faccio finta di non sentire: mi verso il latte e bevo. 2°: Mia madre, ancor più stizzita di com'era, dice (mentre vado alla finestra cercando di essere indiferente): "Gobbetta!" e mia sorella: "Già, dovresti un po' raddrizzarti se non vuoi diventare gobba del tutto!". E una risata. Non dico niente e corro giù piangendo. No ho avuto tanta stizza da mettermi a piangere e forse sono stata troppo debole ma non posso sopportare che mi dicano quello che non sono; chissà da dove hanno tolto quella parola così rozza e... brutale! Sono adiratissima. Mamma mi chiede ora se voglio lavare la cucina. E' il colmo! Ora si che posso dirle che è sfacciata! No, non lo farò! Ma forse son parole grosse: finirò per cedere.

Ore 10,35
farina6Ho lavato la cucina. E' tutta ordinata e bella. Sono andata al pullman. Sono ritornata e mi son messa a scrivere. Mia madre ha ripreso a parlarmi. Non ne sono affatto contenta: avrei preferito non più parlarle né ascoltarla. Con lei non mi sono mai confidata, in nessuna cosa; chissà che cosa pensa di me e forse mi chiederà che cosa penso io di lei? Non lo so; sono e, credo, saranno domande senza risposta: non mi azzarderò certo a chiederle cosa pensa di me, non lo farò mai. Siccome mia madre deve stare in campagna perché mio padre è pastore, per circa 3, 4 mesi non la vedo. Quand'ero piccola era come se non l'avessi. Ho un bisogno grandissimo di tenerezza, di affetto materno ed anche paterno: non ho mai accarezzato mio padre né lui ha accarezzato mai me. Non mi sono mai sentita felice; provo ad esser buona e non ci riesco: se mi avessero voluto tanto o solo un po', di quel bene che voglio io, sarei stata, e ci scommetto, più buona, meno capricciosa, molto più attiva e studiosa. Non avrei mai parlato male! Lo so, sono pienamente sicura di questo poiché ne ho fatto l'esperienza con zia Maria che adesso è in campagna. Quando era buona con me, quando sapeva ripagarmi di una buona azione io, anche se non lo dimostravo, dentro di me gioivo: infatti con zia Maria vado troppo, troppo ti dico, d'accordo. Dunque, cambio argomento perché credo che tu ti annoi troppo. Stasera, spero bene, metteranno i quadri. Chissà che piagnistei, che grida e che gioiose pazzie: anch'io se sono promossa, naturalmente, ne gioirò fino ad impazzire, se sarò bocciata sarà solo colpa mia e credo che impazzirò ma di dolore tanto che non uscirò più, più, più.


Bitti 13 giugno 1965, domenica mattina

Carissima Giò
Sai che bellissima, arcibella notizia mi ha dato ieri Rinaldo? Dunque: sono andata in giro per il corso Veneto comprando fiammiferi, cartolina, ecc. poi sono ritornata a casa. Prima di questa c'è un negozietto che appartiene a "Martineddu", come lo si chiama abitualmente, e ci sono passata per comprarmi diavoletti (confetti di liquirizia neri). C'era Rinaldo che ha voluto stringermi la mano dicendomi "Auguri!". "Bè, non so perché!". Dissi io. "Perché sei stata promossa - e ripeté - "Auguri". Ne ero felicissima e sbalordita. La strada della scuola non era mai stata percorsa, con così gran gioia, da me. In Religione ho sufficiente, italiano 8, storia e geografia 7, francese 7, matematica 6, disegno 8, educ. Fis. 6. Spero che ti piacciano i miei voti, Giò. A casa ne sono tutti felicissimi. Ho già ricevuto £ 2.000: una somma che mai ho posseduto, quindi ne sono contentissima perché con i soldi che mi deve dare zia Maria, potrò comprarmi la bici, che desidero tanto.


Bitti 14 giugno, 1965, lunedì mattina

Cara Giò
Oggi, anzi ieri pomeriggio, è venuta la zia Maria, mio padre e Sebastiano, mio fratello. Ieri sera è stato terribile: è scoppiata una contesa assai burrascosa tra mia zia e mio padre. Mia sorella si è messa a piangere, io invece sono stata più forte, ho resistito poi sono andata giù con Petry e ho dormito con lei. Zia Maria e zia Nennina sono andate a votare giù allo scolastico: erano le 9,30. Mio padre e mia madre sono andati a letto come pure Lucy e "Bastianu". Stamattina sono stata svegliata dalle grida di zia Maria. Mi sono alzata alle 7, sono andata al latte con Petry.

Pomeriggio
Per tutto il quarto d'ora del pranzo, il babbo non ha parlato per niente. Non ha voluto frutta, ha fatto il broncio e basta. Ne sono dispiaciuta, anche perché a tavola hanno parlato solo i piccoli e cioè Petry, Bastiano, Lucy e io. Trovo che mio padre non è molto pignolo, poiché quando non è adirato non fa mai il prepotente. Infatti, quando si adira, trova che dire su ogni cosa e ciò mi secca molto, tanto che gli spedisco sottovoce, naturalmente, una sfilza di male parole. Non che lo abborrisca addirittura, ma non ho mai provato un sentimento d'affetto per lui. Che cosa ci posso fare? Non è colpa mia se non gli voglio bene. L'atmosfera di casa è deprimente. Il sole non è caldo anzi soffia un po' di vento per giunta freddo. Ho lo scamiciato a quadretti verdi, rossi e rosa e sotto una camicetta trasparentissima di nylon (nailon) e ho un po' di freddo.

P.S. Le votazioni continuano. Macchine si intrecciano e scorrazzano per andare a scuola, e sono quasi sempre piene di gente. Tutti fanno sforzi per ottenere voti alti. Fanno proprio di tutto.

Francesca Farina
Una vita: prima adolescenza
diario 1965-1966



farina2 Sabato 8 aprile 1978
Sapere di aver perduto per un soffio le cinquecentomila lire del presalario è davvero qualcosa che non mi dà pace. Solo per un esame che non ho fatto in tempo (il famoso esame di settembre, di Critica Letteraria II e mi presentai persino, ma non ebbi il coraggio di farlo) (stronza e stupida), devo rodermi e basta, tanto non c'è speranza. Adesso telefono ad Angelo e vediamo che succede, perché in fondo uno in più l'ho sempre fatto. A dormire da Felice. Al Nuovo Olimpia "L'altra faccia dell'amore".


Lunedì 10 aprile 1978
Ore 17 meno venti. Torno da casa di Felice. Stamattina: Biblioteca nazionale. Ore 23. Mi sono abituata proprio male. Vorrei essere a dormire a casa di Felice. Non ho una lira. Mia zia non me li manda, mia madre, la solita vigliacca che non mi dà una lira da gennaio, non si fa viva. Forse devo pagare le tasse del terzo e quarto anno, o forse solo quelle del quarto, se mi danno il presalario del terzo. Magari. Sono tanto gelosa della madre di Felice perché lui le vuole tanto bene e di me se ne frega. Bisogna che per un po' non mi trovi in casa. Domani pom. non mi troverà di sicuro, vado ad accompagnare Igor in piscina, ma c'è anche un fatto, che lui mi può telefonare presto, anzi telefona sempre presto, e allora io sai che cosa faccio? Non rispondo. Vorrei tanto che mi amasse o che lo amassi, ma anche avere qualcun altro. E dove lo trovo? Mica semplice. Io troverò un uomo eccezionale, non uno qualsiasi come Felice. Gliel'ho detto anche oggi. Voglio essere diversa e fare cose diverse. Sono alienata. Il pensiero dei miei familiari che non mi stimano mi uccide. Perché devo essere sempre considerata insignificante, e quanto tiro fuori le unghie tutti ridono? Io sono destinata a fare la fine di mia madre, mia madre non è tenuta in nessun conto da nessuno, e così fanno tutti con me: nessuno si ricorda di avermi conosciuto, nessuno mi saluta e tutti fanno finta di non vedermi. Ma cos'ho? Sono un essere così amorfo? Alle Medie tutti mi esaltavano, e credevano che avrei fatto chissà che, adesso, niente, nessuno mi caga. Ma chi se ne frega. Merda a tutti. Le mie zie mi hanno insegnato a stare zitta e a subire, a non ribellarmi, neanche quando era giusto, e a un tratto io non ho più capito quando era giusto e necessario ribellarsi, essere me stessa.


Martedì 11 aprile 1978
80.000 da zia Maria. Igor in piscina. Ore 24. Ieri sera ero disperata. Ho dovuto chiedere i soldi a zia Maria e lei me li ha mandati. Adesso mi sento quasi in colpa. Quando ho bisogno d'amore, quando ho tanto bisogno d'amore, allora niente amore, non esiste per me, chiuso. Nessuno si preoccupa di me. Nessuno sa che esisto. Battono le ventiquattro. A 25 anni soffro ancora, disperatamente, perché non ho mai amato, non sono mai stata amata, e ciò di cui adesso sento di più la mancanza è l'amore di mia madre, che io non conosco, che non ho mai, mai avuto. Stanotte ho sognato che dicevo a qualcuno: ecco, vedi, io non ho mai avuto il seno di mia madre, per questo ne sento… l'esigenza, ma uel qualcuno se ne strafregava, non mi stava neppure a sentire, rideva e si girava a guardare qualcosa che era del tutto estranea. Stasera Felice è solo. Ancora Claudio non è tornato e avrei dovuto andare a dormire da lui, ma devo assolutamente battere la tesi, che non mi va, non va, mi sembra senza polpa e senza sugo, senza spina dorsale. Devo lavorare molto e seriamente, devo cercare di fare un buon lavoro, un lavoro che mi soddisfi, devo farcela, devo mettercela tutta. Sono ancora alla prima pagina, che sto battendo e ribattendo forse già per la decima volta: non mi soddisfa!!! Felice, buonanotte.


Sabato 15 aprile 1978
Ore 13. Mi sono alzata alle 11. Non riesco a trovare le "Odi" del Foscolo che mi servirebbero per andare avanti. Anche stamattina, niente, cazzo, non ho scritto una riga, cazzo cazzo cazzo. Ore 14,30. Ho trovato il nocciolo, le implicazioni foscoliane e pariniane della prima poesia del Satta. Non ho ancora mangiato. Sto facendo le patate lesse, un uovo sodo e i carciofi fritti e lessati con l'aglio, ricordo di come si fanno, più o meno. Mangio anche un po' di carne. Questa gatta Misha è una palletta. E' tenera e noiosa. Alla TV non c'è un cazzo. E' sabato. Piove da più giorni e pioverà ancora. Il nonno di Andreina ha detto: "Se piove il 9, piove tutto aprile!" E infatti, ecco qua. Anzi, dovrebbe piovere per quaranta giorni. Che strazio. E io ho tanta voglia di sole, di mettermi al sole sulla sdraio. Ore 24 circa. Ma ho ancora dubbi, e molti, su tutto. La stesura, poi, mi riempie di orrore e preoccupazione. "Interno di un convento" all'Aniene con Felice incazzato perché non sono andata da lui questo pomeriggio.


Martedì 30 maggio 1978
Ore 12,30. Questi sono i giorni più lunghi. Che barba. E' tremendo. Non mi va di studiare, soprattutto di ripetere. Mi ero messa Sabato a studiare col registratore e mi riusciva molto meglio, invece mi è caduto e adesso è da riparare. Uffa. Uffa. Uffa. Cosa farò, dopo la laurea? Non ci sono speranze di alcun genere. Ore 21,30. Ohe, qualcosa l'ho fatta. Stamattina al sole e poi questo pom ancora con Felix alla biblioteca di Economia e Commercio. Finalmente ho di nuovo il registratore e adesso ascolto Joan Baez. Sono tornata a casa dopo la cena a mensa, e ha cominciato a piovere a dirotto, proprio quando sono scesa dall'autobus, sotto casa. Domani è l'ultimo giorno. Sono sola mentre Anna è fuori e Igor è a dormire da Diana. Tra poco vedo un film in TV: "Diario di una casalinga inquieta".


farina7Domenica 4 giugno 1978
Pallida idea di una thea. Nella realtà il profumo e il colore e l'armonia sono cose vive che la rendono creatura. C'è un grande profondissimo silenzio. E' Domenica ma non mi sembra. Sono sola in casa. Anna e Igor sono andati da amici, io cerco di ripetere ma non ce la faccio. Adesso ho mal di testa e la solita depressione, mentre stamattina stavo bene, ho fatto un bel bagno appena alzata o forse mi illudevo di stare bene, di essere euforica. Adesso che faccio? Devo smetterla di torturarmi. Ho paura persino di andare a casa. Ho paura paura pura. Ma perché. Devo affrontare un ambiente in cui io sono desublimata e scaduta di valore, agli occhi di mio padre, mia madre, dei miei fratelli. Ma è duro, duro da pensare e da sapere e da scrivere. E' vero? E' vero. Porterò dei regali a tutti: a Sebastiano il libro sulla pittura, agli altri un braccialetto, una crema, un libro, ecc. Ma io non posso conquistarli con niente, essi ormai sanno chi sono e non mi accettano. Nessuna mi accetta e neppure io mi accetto. Ma non so neppure io chi sono.


Mercoledì 7 giugno 1978
Ultimo esame, 30 e lode.


Giovedì 8 giugno 1978
E adesso comincia la grande avventura-disavventura della disoccupata. Devo lavorare. Devo trovare un lavoro e questo insieme al problema della casa è uno dei più grossi problemi del momento. Ho parlato con ziuccia e con Brigida. Stanotte ho dormito (male come al solito) da Felice, che palle. Eppure continuiamo impenitenti a farci i sorrisi e i complimenti. Che strazio.


Sabato 10 giugno 1978
Ore 11,30. Sono qui. Ho mal d'orecchi e un ascesso a un dente. Sono stanca morta. Sono tornata da casa di Felix poco fa. Vado a casa, in Toscana, domattina; non è ancora arrivato il certificato elettorale ma ci vado lo stesso. Il valzer del pipistrello. Felix dovrebbe arrivare adesso. Non vado dalle suore per un posto di insegnante, ma forse ci andrò questo pom. Sono stanca morta, debole, debosciata, sfinita. Devo ancora battere la bibliografia.


Giovedì 15 giugno 1978
A Roma con la padrona che rompe i coglioni come sempre. E' sempre la solita solfa con la solita stronza, più me, ancora più scema. DIMISSIONI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA LEONE GUFONE BUFFONE. Sono le nove e mezza e piove a dirotto. Dio, che lampi e che tuoni. Felice non telefona. In treno mi sono ricordata di come batteva il suo cuore, l'ultima volta.


farina8Venerdì 16 giugno 1978
Ore 14 circa. Solita insonnia e solita sveglia prestissimo e solito mal di denti e di testa e di occhi e di orecchie e palle dappertutto. Felice non chiama, in compenso ha tf ziuccia e mi ha detto che mi manda 100mila lire, anche per comprarmi un bel vestito. Ma come faccio?! E' meglio invece che metta da parte più soldi possibile. Adesso devo finire di battere la bibliografia che non è molta ma è pur sempre una fatica e poi questo pomeriggio stesso spero di andare a fare le fotocopie e poi rilegare tutto e dare domani la copia al professore, cioè al suo portiere, oltre naturalmente a darne un'altra anche a Pedullà, il correlatore. E poi: andare a parlare con le monache per quel posto, darmi da fare per lavorare, guadagnare, anche se per ora sembra un improbabile miraggio. I vicini litigano: maledetto il giorno che t'ho incontrato. Proprio così, come al cinema o nei fotoromanzi. Due coniugi, un tempo belli e giovani, innamorati, e poi logorati dalla vita e dalle amarezze, senza figli e senza amici, soprattutto lei che doveva essere bellissima ed è ancora bella, ma sempre sola, prima con un cane, e ora anche senza cane, dato che è morto di vecchiaia. Ma io come finirò? Riuscirò a scrivere, a essere letta, a dipingere, a diventare critico letterario, a scrivere una vera storia della letteratura sarda? E a farmi pubblicare la mia tesi su Satta? Ma forse farei meglio a farmela discutere, prima! Vorrei parlare con Felice, ma il mio onore, la mia onorabilità potrebbe essere scossa da una semplice telefonata che sua madre potrebbe captare. Allora lei si sentirebbe autorizzata a considerarmi una ragazza senza onore se, sfacciatamente, gli telefono, e magari penserebbe anche che lo chiamo per anticipare, se mai fosse possibile, il suo ritorno. Sono distrutta: 17.000 lire di fotocopie. Gulp. Ho tanto sonno. Ho gli occhi pesti.


Sabato 17 giugno 1978
Ore 10. Felice mi ha tf ieri sera alle 9 e mezza, arriva questo pomeriggio ma non sa a che ora. Ritarda sempre. Ho fatto il bagno col guanto di crine e il nuovo bagnoschiuma. Che bellezza. I denti mi preoccupano moltissimo. Mi sanguinano e fanno male e ho le gengive gonfie e doloranti. Uffa. Adesso devo battere ancora un po' di bibliografia perché è troppo scarsa, poi andrò a far rilegare il tutto. Ore 3 e mezza. Ho finito ora di mangiare: fumo sul letto e penso a Felix. Ho paura. Mi deluderà ancora, come sempre quando ci rivediamo? Devo sciogliermi ed essere carina subito con lui, perché non amo il suo aspetto fisico ma la sua tenerezza la sua bontà la sua semplicità la sua dolcezza, anche se spesso è crudele cattivo finto falso. Purtroppo. Ho finito anche la bibliografia su Satta e adesso devo solo far rilegare, anche se non sono molto soddisfatta delle fotocopie, che sono venute alquanto schifose. Pazienza. Ormai… Mancano solo pochi giorni. Pochi giorni. Ho paura. Sempre paura. Ore 5 meno un quarto. Felice è a Roma. Adesso ho più che mai paura. Ho quasi terrore. Terrore Terrore Terrore Terrore. Viene qui. GONE WITH THE WIND.


farina3Martedì 27 giugno 19780
Il 6 luglio ho l'esame di laurea. Ultimo esame e primo di una serie di esami della vita. Adesso comincia la solitudine a farsi sentire più forte. Adesso aumentano le sofferenze le frustrazioni i dolori. Adesso sono più sola che mai, senza scampo senza lavoro senza soldi senza niente. Felice non può più fare nulla per me né io per lui. Cosa farò? Ho paura. Ho una folle paura. Ma a che vale? Occorre lavorare. Darsi da fare. Uscire. Fare concorsi. Informarsi. Sudare. Faticare. Morire. Cercare. Camminare. Devo ridurre le spese e stringere i denti. Sono sola. Nessuno può aiutarmi né difendermi. Adesso devo essere forte e lottare senza l'aiuto di nessuno.


Givedì 6 luglio 1978
Esame di laurea. Sono la decima … 110 e lode. Manacorda ha superato ogni previsione. Pedullà è stato un dio.


Venerdì 7 luglio 1978
Sono le sette e mezza. Pertini ha ritirato la sua candidatura a presidente della Repubblica. Stanno votando ormai da otto giorni. Che stronzi. Adesso anch'io devo cercare di essere scelta, di avere un lavoro. Domani vedrò Francesca e cercheremo di darci da fare. Centeodieci e lode, si, ma cosa significa? Mai una laurea in Lettere è stata tanto deprezzata come in questo ultimo decennio. E' proprio a partire dal '68 che le lauree non hanno alcun valore. Anche ieri sera mi sono lasciata male con Felice, e poi mi ha richiamato: voleva andare al mare, ma non credo che ne avesse molta voglia. Ad ogni modo non posso assolutamente andarci perché alla signora è presa una grande frenesia di stare con Bruno. Pure la sera della mia laurea.


Sabato 8 luglio 1978
PERTINI PRESIDENTE. "Procurate de moderare, barones, sa tirannia, ca si no, pro vida mia, torrates a pedes in terra!". Ore 9,15. Adesso ci lanciamo nel bel mezzo della lotta, anche se non conosciamo il nemico da sconfiggere. Ha mille volti. Tragico. Come farò? Stamattina dovrei andare al Vaticano con Francesca. L'ho chiamata ma non c'era. Tra poco la richiamo. Igor è con me, ma stamattina mi fa molto, molto piacere. PERTINI. "Questa volta non si tratta di eleggere il Presidente, ma di cambiare il Paese…". Di Giacomo: "Che sole, che sole, che sole lucente, ma chi vuo' fa niente?".


Lunedì 18 dicembre 1978
Casino. Litigano perché il padrone di casa le caccia tutte, 'ste pettegole. Io sono nel casino più nero. Sono le dieci e mi alzo adesso, pensando al mio assurdo rapporto con Felice che si lamenta perché non scopa, ma intanto gli piace fare quello che facciamo. Sono io che sono un fallimento, uno zero come donna, una terribile immatura sessuale. Mi sono fermata allo stadio più primitivo e forse non voglio andare avanti. Non con Felice almeno, che non mi ha mai fatto partire completamente. Non sono mai partita con nessuno, non perdo mai la testa, non mi abbandono. L'amore di cui mi hanno parlato al cinema, alla TV, nei libri, nei giornali, per me non esiste, è un colossale falso, una colossale truffa. Non ho mai provato questo totale trasporto per un uomo, ricambiata. Non sono mai stata ricambiata, da nessuno, non nel modo in cui io desideravo. Ho perso Franco, ho perso Lello, ma quello meglio perderlo che trovarlo. Gira e rigira l'amore è sempre al centro della mia vita, anche se fingo di accantonarlo. Soffro molto a non amare e a non essere amata da Felice, a non avere un bel rapporto con lui, soffro moltissimo e mi fa male, mi sento menomata a non godere della sua bocca e di quando mi bacia, a non poterlo amare liberamente quando lo vuole e a non volerlo, quando lo vuole. Perché sono così stupida e non riesco ad avere dei rapporti sereni e rassicuranti con le persone? Perché nessuno mi ricorda e nessuno mi saluta, anzi tutti quelli che conosco un poco fanno finta di non vedermi quando mi incontrano? Io questo non riesco a capirlo. Vorrei parlare, parlare con Felice, ma non abbiamo un solo momento di tempo per parlare, facciamo roba e poi andiamo al cinema, ma parlare di me è un argomento che non piace a nessuno, né ai miei né alle mie amiche (buone, quelle, non mi hanno mai telefonato da quando sto qui), né a Felice. Sono proprio una disgraziata. Possibile che non piaccio a nessuno? Ma cos'ho? Insicurezza timidezza immaturità diversità emarginazione? Sono una emarginata, una diversa. Quando sto con gli altri mi sento e sono sempre diversa. Non riesco a stare bene con la gente. Questo discorso potrebbe allargarsi all'infinito. Ore 20,05. Vado al cinema con Bobby. C'è un film animato musicale "Allegro non troppo" all'Ausonia. Ho fame…

Francesca Farina
"I giorni dell'amore tutti i giorni"
diario 1977-1978

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