Giuseppe Marcheselli Stampa E-mail

Giuseppe MarcheselliSenza odio né rimorsi
memoria 1945

Giuseppe Marcheselli
nato a Bologna nel 1916 morto nel 1982

Valenza, Alessandria, sponda destra del fiume Po, 29 aprile 1945. Il Tenente Del Bianco mi dice:"Presentatemi la compagnia". Do l'attenti e il presentat-arm. Pied-arm, riposo. "Soldati, la guerra è finita". Dice ancora qualche parola che non intendo, perché lo sto guardando bene in viso. Del Bianco piange. Del Bianco che è stato prigioniero dei "titini" ed è fuggito, Del Bianco che ha combattuto nei Balcani a fianco dei tedeschi, ha patito i loro lager dopo la capitolazione, Del Bianco che non ha mai ceduto a minacce e lusinghe, Del Bianco, l'ufficiale odiato per la sua inflessibile severità, piange. Le lagrime
gli scorrono sul viso gocciando, scivolano lungo il cinturone, cadono sul cavallo. Guardo le due righe di soldati: molti piangono. Piangono alla notizia che la guerra non c'è più. Allora mi butto a destra, lungo un muro, dietro una casa, perché i borghesi non mi vedano, e scoppio a piangere come un bambino. Così racconta Giuseppe Marcheselli, sottotenente inquadrato nella divisione San Marco della Repubblica sociale italiana, nel giorno in cui termina la sua Seconda guerra mondiale. Da alcuni giorni, l'Italia dei partigiani e degli alleati procede alla liberazione del Nord dall'occupazione di nazisti e fascisti. Giuseppe è tra questi. Non ero figlio di squadristi, né ex-gerarca, né deportato in Germania, né ridotto a mendicare uno stipendio da sottotenente. Semplicemente ero rimasto nel 1943 a pensare come nel 1936, mentre la maggior parte dei miei coetanei aveva iniziato proprio in quell'anno ormai remoto il "lungo cammino" verso l'antifascismo. Scrive a caldo una memoria senza odio né rimorsi con un unico scopo, affinché gli italiani di questa generazione riescano a comprendere la nostra. Così va letta. Accompagnando Giuseppe e i suoi commilitoni attraverso le tappe della prigionia, da Genova a Viareggio, alla pineta di San Rossore, fino al campo 338 di Coltano, vicino Pisa. Scoprendo le sofferenze, i dolori, le violenze che accompagnano ogni detenzione nell'era nell'odio. Costanzo Lunardini aveva lasciato in Liguria un ricordo di fegato e di severità ben meritato: c'era da attendersi che i partigiani di là si sarebbero fatti in quattro per ritrovarlo e farlo processare più o meno legalmente quale "criminale di guerra". Decise di fuggire dal campo prima di una eventuale consegna. A mezzo luglio la custodia toccava ai filippini. Si levò prima dell'alba fingendo di recarsi al gabinetto. Cominciò a scivolare attraverso il primo reticolato orizzontale. Ad un tratto sentì di essere rimasto impigliato. La sentinella lo aveva scorto. Giunto alla sua altezza, a bruciapelo, lo freddò con due colpi di fucile che rimbombarono nel silenzio immobile. Ma a Coltano spuntano anche i primi germogli di un nuovo inizio, che passa attraverso la cultura e la bellezza e conduce al ritorno alla vita. L'istituzione di un "Libero Ateneo" favorisce i corsi di poesia, di letteratura e di storia, che lo stesso Giuseppe impartisce. Non mancano gli spettacoli teatrali. Veramente in quei momenti (e furono tanti) la prigionia diveniva quasi una gioia, lungamente assaporata. Col passare dei mesi, i prigionieri vengono liberati. Il grande giorno arriva anche per Giuseppe, il 6 ottobre 1945. Alla vigilia di un altro passaggio straordinario della vita del Paese, riabbraccia la moglie e i figli, si abbandona alla normalità. Dalla porta delle scale sta entrando, con un giubbino di maglia rossa, fresca ed ignara, LEI. La domenica dopo, 14 ottobre, in tutta Italia erano convocati grandi comizi di sinistra per la Costituente. Ricominciava il campionato di calcio e c'era Bologna-Modena. Ho preso mio fratello, come un tempo, e sono andato alla partita... 

Il programma della 33^ edizione:  

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